Ho un debole per Henri Cartier-Bresson.
Anzi : Henry Cartier-Bresson è il mio fotografo preferito.
Da sempre.
Da quando tanti anni fa il mio amico Alessandro, commentando uno mio scatto particolarmente riuscito, mi disse : “Alla Cartier-Bresson”.
“Alla chi?” risposi io.
“Ma come, non conosci Henri Cartier-Bresson?”. E allora giù a scoprire le sue foto. A dire il vero a quell’epoca non è che conoscessi tanti grandi autori, ma subito me ne innamorai.
Di solito succede che poi, aumentando la conoscenza dell’argomento e scoprendo atri autori, ci si allontani dai primi amori e si finisca a guardare con tenerezza il proprio io di allora, ancora ingenuo e inesperto, che si era lasciato affascinare da quel primo nome importante, capitato per caso sul suo cammino.
Ma non è stato così per Cartier-Bresson : ho sì poi scoperto altri fotografi, ma la mia ammirazione per lui non è diminuita, al contrario, è aumentata. Fa parte dei fotografi famosi da cui mi sono lasciato maggiormente ispirare.
Ho letto un po’ di cose su di lui negli anni e mi piacerebbe condividerle con te.
Ma partiamo dall’inizio…
Henri Cartier-Bresson : dove tutto ebbe inizio.
Nel 1931 la rivista francese Arts et métiers graphiques pubblica questa foto di Martin Munkacsi : tre bambini neri, nudi, che si tuffano nelle onde del lago Tanganyika.

Henry Cartier-Bresson, allora ventitreenne, la vide e ne fu subito rapito.
Di quella foto racconta :
Ho capito all’improvviso che la fotografia poteva fissare l’eternità in un attimo – dirà più tardi. E’ l’unica fotografia ad avermi influenzato. C’è in questa immagine una tale intensità, una tale spontaneità, una tale gioia di vivere, una tale meraviglia che ancora oggi mi abbaglia. La perfezione della forma, il senso della vita, un fremito senza pari…
Voglio cominciare da quì a raccontare quello che so su Henry Cartier-Bresson, da quella che lui stesso definì : la foto che diede fuoco alle polveri.
E proprio nelle parole di ammirazione verso lo scatto di Munkacsi che si racchiudono quelle che saranno le cifre stilistiche dell’intera sua opera : rigore formale e intuito.
Mai nessuno è riuscito a dimostrare al pari di Cartier Bresson fin dove la fotografia può arrivare in termini estetici e narrativi.
Come tutte le cose, quello che Cartier-Bresson è diventato è il frutto delle scelte fatte e delle esperienze vissute durante la sua vita straordinaria.
Lascia che te la racconti in breve….
La vita di Henri Cartier-Bresson.
Nasce a Chanteloup il 22 agosto 1908, primogenito di una famiglia di ricchi industriali del cotone.
Capisce subito che la gestione della fabbrica non avrebbe fatto per lui : studente mediocre, percepisce fin da ragazzo una propensione verso le discipline artistiche, appoggiato in questo da suo zio Louis Cartier-Bresson.
A 18 anni entra a far parte della Accademia di pittura di André Lhote e in parallelo frequenta i surrealisti parigini riuniti attorno ad André Breton.
E’ da queste due esperienze giovanili che formerà la sua estetica.
Lhote era solito far esercitare i propri allievi con quelli che lui definiva gli “esercizi di purificazione”, facendo sovrapporre schemi di costruzioni geometriche alle riproduzioni di opere di grandi maestri.
E’ qui che il giovane Cartier-Bresson contrae il virus della geometria.
Dalla frequentazione con i surrealisti acquisirà invece l’altra parte costitutiva del suo modo di vedere il mondo, quella della rivelazione della vita che sarà alla base del concetto di istante decisivo e di tutto quello che ne deriverà poi.
In quegli anni il suo interesse sarà comunque rivolto alla pittura.
La scoperta della fotografia.
Durante il servizio militare presso la base di Le Bourget a nord di Parigi, Cartier-Bresson entra nel giro di amicizie di Harry e Caresse Crosby, una coppia dell’alta borghesia americana con la passione per l’arte.
E’ grazie a loro che entra in contatto con Crevel , Breton, Salvador Dalì e stringe rapporti con alcune persone che saranno fondamentali per il suo futuro.
Julien Levy, figlio di un ricco immobiliarista di New York, che aveva studiato storia dell’arte ad Harvard, qualche anno dopo ospiterà la prima mostra personale di Cartier-Bresson nella sua galleria privata della grande mela.
E i coniugi Gretchen e Peter Powel, fondamentali nell’incoraggiare il giovane Henri alla fotografia.
Dopo il servizio militare Henri Cartier-Bresson si imbarca improvvisamente per l’Africa : un po’ per rompere con il mondo della buona società borghese in cui era nato e cresciuto. Un po’ per allontanarsi da una relazione “senza futuro” con Gretchen Powel. E un po’ per il richiamo del continente nero, molto presente nell’immaginario artistico degli europei dei primi del Novecento.
Henri Cartier-Bresson fotografo.
Di ritorno dall’Africa, nel 1931 viene illuminato dalla foto di Munkacsi e decide definitivamente di lasciare la pittura in favore della fotografia.
Lo comunica alla famiglia e inizia una serie di viaggi con l’intenzione di fare fotografie : Europa, Sudamerica , New York. Sono gli anni delle prime mostre e molti riconoscono nella produzione degli anni 30 il miglior Cartier-Bresson di tutti i tempi.
Inizia anche ad interessarsi al cinema e allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale viene arruolato nel Servizio cinematografico della terza armata.
Nel 1940 viene fatto prigioniero dai tedeschi e rinchiuso in uno Stalag (campo di concentramento per i prigionieri di guerra).
Nel 1943 ebbe successo il suo terzo tentativo di fuga, evento che anche molti anni dopo definirà come il più importante della sua vita: gli anni di prigionia e la successiva conquista della libertà erano stati fondamentali nella formazione umana del giovane borghese surrealista.
Dopo la fine della guerra decide di girare un film documentario, Le Retour sul rientro dei prigionieri, dalla liberazione dei campi di concentramento fino all’accoglienza nelle loro città di origine.
Nel 1947 viene allestita una retrospettiva delle sue foto al MOMA di New York e fonda assieme a Robert Capa la Magnum.
Il resto è storia.
Ormai grande reporter professionista, andò in Cina, in Russia e in tutti quei paesi in cui la Storia lo richiese.
L’estetica di Henri Cartier-Bresson.
Ci sono molte frasi sulla fotografia attribuite ad Henri Cartier-Bresson.
Per iniziare a parlare della sua estetica, prendo spunto da una delle più celebri :
Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira testa, occhio e cuore. E’ un modo di vivere.
La testa, per la comprensione del fatto che si sta rappresentando.
L’occhio perché sia riconoscibile una forma.
Il cuore, quanto basta perché quella comprensione del mondo attraverso quella forma possa essere comunicato.
Nella misura del quanto basta c’è la grandezza del fotografo, il rischio di cadere in concettualismi, formalismi o melenserie è dietro l’angolo.
Ancora le sue parole tratte dall’introduzione ad uno dei suoi libri più importanti Images à la Sauvette :
La composizione deve essere un cruccio costante, ma al momento di fotografare non può che essere intuitiva, perché siamo alle prese con attimi fuggenti dove i rapporti sono mobili.
Composizione e intuito.
Lhote aveva lasciato in Henri Cartier-Bresson l’ossessione per la geometria e la forma; i surrealisti invece, la consapevolezza della sensibilità dell’intuito con il quale riconoscere, in una frazione di secondo, quelle forme che pongono in essere il fatto fotografato.
La grandezza della sua composizione si basa sull’individuare uno sfondo dal valore geometrico interessante e poi aspettare che elementi dotati di vita vadano a sistemarsi in quella che lui definiva la coalizione simultanea.

Henri Cartier-Bresson e la Street Photography
Abbiamo appena visto il tipo di approccio intuitivo di Cartier Bresson alla fotografia.
Se sei un lettore del blog saprai che sono un grande ammiratore anche di un altro tipo di fotografia, quella costruita e meditata della scuola di Düsseldorf e di fotografi come Andreas Gursky, Massimo Vitali, i coniugi Becher.
Eppure credo che il mondo oggi abbia bisogno di una forma di pensiero, chiamiamola pure una nuova intelligenza, che si distacchi dalla razionalità dilagante e che ci riavvicini a forme più istintive di fare le cose.
Un tipo di fotografia come quella di Cartier Bresson potrebbe aiutare in questo perché è rivolta a riconoscere un’immagine durevole e a strapparla al flusso dell’esperienza, senza premeditazione e senza averla progettata.
Per fare questo però c’è bisogno di due cose :
- una sensibilità a riconoscere, senza premeditazione e senza averlo progettato, un istante significativo;
- avere un bagaglio culturale talmente grande da aumentare le occasioni del riconoscimento.
Cose che sicuramente possiamo ritrovare in Cartier Bresson alla luce della sua vita, degli studi di pittura e dei tentativi di fuga dai campi di concentramento.
Solo grazie a questi due aspetti si può conquistare il privilegio di essere istintivi. Senza queste due cose quella che chiamiamo istintività si traduce solo in vacuità e superficialità.
Molto spesso il nome di Cartier Bresson viene associato alla Street Photography e lui viene elevato da molti a re di questo stile fotografico.
L’importante è non confonderla con l’andare in giro in strada a farsi sedurre dal bello fine a se stesso. I tramonti, i bambini che giocano, i gesti di chi fa sport in strada…
Questa è street photography nella sua peggior forma che non ti permette di fare fotografie interessanti e, soprattutto, non ti dà soddisfazione.
Arrivare a praticare “il tiro fotografico” come lo intendeva Cartier Bresson (prendendo in prestito l’espressione dalla caccia) è cosa non facile e che richiede tempo e dedizione.
HCB e la macchina fotografica

Leica e Cartier Bresson sono nel tempo diventati sinonimi l’uno dell’altro.
In una delle sue rare interviste, il fotografo francese racconta quali sono i vantaggi dell’utilizzo della 35 mm e di come le caratteristiche di questa macchina fossero ideali per il tipo di fotografie che realizzava.
Perché anche questo c’è da imparare dai grandi : l’attrezzatura fotografica deve essere una conseguenza delle necessità e delle aspirazioni creative del fotografo.
Sempre più spesso invece i motivi che portano all’acquisto di una macchina fotografica sono legati a caratteristiche tecniche che sono delle semplici leve di marketing e non corrispondono a quello di cui davvero abbiamo bisogno.
Mi servono davvero tutti quei pixel quando farò foto solo per pubblicarle online e probabilmente non ne stamperò mai una?
La lunghezza focale dell’obiettivo che sto comprando è davvero quella ideale per me?
E così via…
Ma vediamo quali erano i motivi che hanno spinto Cartier Bresson a diventare quasi un pioniere nell’utilizzo delle macchine di piccolo formato, le famose 35 mm, formato ancora oggi il più diffuso tra professionisti e non (Smartphone esclusi, si intende).
E’ interessante riconoscere che tra i 6 motivi per lui più importanti alcuni sono attualmente le caratteristiche che rendono gli Smartphone così adatti al “tiro fotografico”.
- Discrezione e manegevolezza : i concorrenti all’epoca erano i banchi ottici o le macchine a lastre di medio formato, apparecchi ingombranti e alcune volte intrasportabili, inadeguate a chi deve destreggiarsi senza farsi vedere nella scena;
- i rullini a 36 pose evitavano il fastidio di essere ricaricati di continuo. Le macchine a lastre devono essere ricaricate praticamente ad ogni scatto, 36 fotografie consecutive erano davvero una comodità (oggi lo considereremmo un limite insopportabile…);
- gli obiettivi intercambiabili permettevano di poter inquadrare il soggetto allo stesso modo in cui il nostro occhio lo percepiva;
- la mira si prende all’altezza dell’occhio, in modo del tutto naturale. Il fotografo non era più costretto a guardare verso il basso all’altezza dell’ombelico e la ripresa avveniva da una prospettiva più “umana”;
- il formato rettangolare 24×36 mm era molto più dinamico di quello quadrato di molti formati allora esistenti;
- gli obiettivi e le pellicole rapide permettevano di scattare anche in condizioni di scarsa luminosità, evitando “il massacro” del flash, che lui proprio non digeriva.
“Come è possibile che in un paese che vanta il proprio buon gusto, la sua conoscenza della pittura, si possano ancora commettere atti di barbarie?”
(Henri Cartier Bresson, commentando l’uso del flash).
Ora che abbiamo ripercorso la sua vita, tracciato i segni distintivi della sua estetica e visto quale macchina fotografica utilizzava è arrivato il momento di far parlare alcune delle sue fotografie.
Ne ho scelte alcune per te…
Henri Cartier-Bresson : Dessau, 1945.
Durante le riprese di Le Retour, Il fotografo si ritrova al cospetto di una scena che ritenne particolarmente interessante.
Una ex prigioniera aveva riconosciuto la donna da cui venne denunciata alla Gestapo : Cartier-Bresson, che stava effettuando le riprese, disse al suo giovane assistente, Claude Roy :
“Continua tu che io devo fare delle foto”.
E tra le foto scattò questa :

Cartier-Bresson sentì che c’era qualcosa che doveva essere colto e che la macchina da presa non sarebbe riuscita a fissare.
“Che stupidaggine!” disse Claude Roy. “La stessa scena l’avresti potuta ricavare dalle riprese che abbiamo fatto”.
“Io non credo”, rispose Cartier-Bresson. E allora, per provare chi dei due avesse ragione, andarono in moviola e riguardarono fotogramma per fotogramma il filmato. L’immagine che Henri Cartier-Bresson aveva visto e volle fotografare, quella che definiva l’essenza di quell’istante, in effetti non fu trovata nella pellicola.
Una cosa sono le immagini in movimento, una cosa è l’estrazione del flusso di vita di un istante, sintetizzato dal significato della forma attraverso il rapporto tra l’occhio, la mente e il cuore.
Ti lascio un link a Le Retour, la scena la trovi al 12′ 47”.
Henri Cartier-Bresson : Valencia, 1933.
La foto scelta è stata scattata nelle arene di Valencia nel 1933.
Riporto anche la serie dei provini da cui venne scelta : come già detto in questo articolo sulla Street Photography, l’istante decisivo non vuol dire un unico scatto. Il lavoro di selezione fa, anch’esso, parte della creazione.
La foto che su scelta alla fine è questa :

La geometria regna sovrana.
In primo piano sulla destra, la porta chiara disegna un quadrato imperfetto all’interno del quale troviamo un rettangolo che richiama le proporzioni dell’intera fotografia.
Proporzioni che ritroviamo nella parte scura di sinistra, ma questa volta il rettangolo è rovesciato in verticale. Al suo interno si rincorrono due rettangoli orizzontali più piccoli.
A tenere insieme questo gruppo di poligoni, una serie di cerchi concentrici disegnati sulla parte destra a formare un bersaglio con al centro un numero 7.
Oltre il vano della porta, sullo sfondo e fuori fuoco, un personaggio la cui forma del corpo “assomiglia” al numero 7. La sua testa chiara si pone al centro del sistema di cerchi.
Uno si questi cerchi è tangente sulla destra all’apertura della porta e il suo prolungamento immaginario toccherebbe il bordo sinistro della fotografia.
Il cerchio più esterno e più grande sfiora la testa del personaggio in primo piano. Un riflesso luminoso ha trasformato una delle sue lenti in un cerchio perfettamente bianco.
Oltre a questo magnifico trionfo geometrico è riconoscibile anche una tensione simbolica.
L’uomo che osserva la scena attraverso il suo monocolo bianco richiama il gesto del fotografo attraverso il vetro della sua macchina fotografica.
Nel libro : “Henri Cartier-Bresson – Lo sguardo del secolo” di Clément Chéroux (edizioni Contrasto) a proposito di questa foto si legge :
Il gioco di sguardi, la tensione della corrida, la delimitazione dello spazio in una serie di zone più o meno protette dalla violenza del combattimento… tutto è presente in questa immagine… ivi compreso il fotografo. L’immagine è, secondo le parole di Cartier-Bresson, “il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo dell’organizzazione e del significato combinato di un fatto”.
Henri Cartier-Bresson : Scanno, 1951.
Nel 1951 Cartier-Bresson realizzò un reportage sui giorni di Natale nel piccolo borgo abruzzese di Scanno. Il servizio ebbe un successo tale da trasformare quel paesino in una tappa obbligatoria di tanti fotografi, famosi e meno famosi.
E così, attraverso gli anni, tanti sono passati di lì a fare fotografie. Si narra che il grande Mario Giacomelli si sia letteralmente lanciato da una macchina perché aveva visto un bambino camminare con fare quasi da adulto, in mezzo a quattro donne. Quella foto oggi è conservata al MOMA di New York.

Scanno è probabilmente l’unico posto al mondo in cui è presente una lapide celebrativa dei fotografi che hanno immortalato la sua bellezza. Due nomi su tutti : proprio Henri Cartier-Bresson e Mario Giacomelli.
Tanti grandi fotografi sono passati per Scanno durante gli anni 50 del secolo scorso: tanti tranne uno, Ferdinando Scianna che, senza nulla togliere ai lavori dei due grandi citati sopra, mal sopportava i successivi pellegrinaggi di “tutti quegli altri”.
Ma dopo tanti anni, anche Scianna decise di andarci nel 1999, per un reportage di moda.
Scianna è stato molto amico di Cartier-Bresson e lo considerava uno dei suoi più importanti maestri. E’ noto che il nostro Henri avesse realizzato la quasi totalità della sua produzione utilizzando una focale 50mm, che considerava la più vicina alla visuale umana. Pare mal sopportasse il dover scattare con altre lunghezze di lenti.
La lapide di Scanno è posta nel punto in cui Henri Cartier-Bresson scattò una sua celebre foto : andando a posizionarsi in quel punto e tentando di riprodurre la stessa inquadratura della foto dell’amico, Scianna fece una scoperta che non si aspettava : la foto non poteva essere stata scattata con un 50mm ma con un 35mm.
Per lui fu una soddisfazione aver dimostrato l’eccezionalità di questa scelta dell’obiettivo del suo metodico maestro, ma la foto ha altri caratteri che la rendono davvero eccezionale.

Lo sfondo, l’attesa e l’istante decisivo.
Henri Cartier-Bresson ha certamente riconosciuto uno sfondo urbano geometricamente interessante : forti linee guida formate dalla ringhiera delle scale che scende a picco in primo piano per poi proseguire con le altre due, spezzate da un angolo retto. Fino a portare i nostri occhi al fondo della fotografia.
L’arco in ferro battuto a fare da invito allo sguardo; il blocco rettangolare formato dalla chiesa con il portone scuro a dare contrasto e la texture del pavimento di acciottolato.
E poi l’attesa.
E all’improvviso, il miracolo della coalizione simultanea.
La bambina vestita di bianco, in contrasto col portone nero della chiesa, dà il via ad un allineamento di sette persone (sette!), disposte in modo parallelo alla ringhiera sullo sfondo. Due di loro rafforzano la direzione delle linee guida con i contenitori rettangolari di pane che portano sulle loro teste.
Le due figure più in primo piano sono disposte sui due lati opposti della prima ringhiera; c’è un cane alla fine delle scale.
In fondo, dove il nostro sguardo è stato accompagnato, altre quattro donne allineate emergono dal bianco della strada. Sul finire, un gruppo di persone contro il muro bianco di una casa.
Henri Cartier-Bresson : Hyères, 1932.

Come si fa a non parlare di questa fotografia.
Ancora una volta uno sfondo urbano significativo, ancora la ringhiera di una scala e poi, l’attesa.
Henri Cartier Bresson organizza in un trionfo geometrico un numero considerevole di linee guida.
Se un pittore avesse dovuto scegliere come comporre le forme sulla sua tela per rappresentare quella scena, probabilmente le avrebbe organizzate in quel modo.
La dinamicità è meravigliosa : ci sono gruppi linee verticali (quelle della ringhiera), la plasticità dei triangoli formati dai gradini e poi la sinuosità della linea curva orizzontale che accompagna la traiettoria del movimento.
E poi c’è il ciclista, perfettamente mosso da un tempo di esposizione regolato per conferirgli movimento ma senza diventare banale.
La presenza del ciclista è lì anche a raccontare “la regia” di questa foto : deve aver atteso a lungo Cartier Bresson che passasse qualcuno per valorizzare il suo sfondo.
Di sicuro aspettava qualche passante a piedi, magari aveva sperato in qualcuno di corsa,magari un bambino.
E alla fine, l’emozione di un soggetto in velocità : l’uomo in bici.
La prontezza del vero esecutore del tiro fotografico.
Ma a volte la coalizione perfetta non arriva solo per effetto dell’attesa: c’è bisogno di una sensibilità superiore.
Henri Cartier-Bresson : la fotografia sciamanica.
Vi riporto le parole che Ferdinando Scianna ha pronunciato un giorno, parlando di Cartier-Bresson:
E’ questa la fotografia che ci ha insegnato Cartier-Bresson : una forma sciamanica, quasi medianica.
Non è soltanto quello che vedi che determina la necessità assoluta della struttura formale e del significato di un’immagine : ma anche quello che non vedi, che tu ricevi attraverso l’incosciente della retina…

…per cui tu stai fotografando quest’uomo che salta: questo momento è decisivo.
Ma là dietro c’è il manifesto di una ballerina che sta saltando, come salta quello quà davanti…
E Scianna, che era amico fraterno di Bresson, la domanda ebbe modo di fargliela:
“Henri, ma tu l’avevi visto il manifesto della ballerina sullo sfondo?”.
E Cartier-Bresson rispose:
“No, non l’avevo visto”.
Conclusioni
Il lavoro di Henri Cartier Bresson è fondamentale per chiunque si occupi di fotografia.
Al di là del valore delle sue fotografie, questo grande autore ci insegna che il livello di bellezza formale a cui può aspirare una fotografia è davvero elevato. Avere la percezione di dove è possibile arrivare è importante per chiunque scatti fotografie.
L’altra grande lezione che ci lascia Cartier Bresson è quella di fare tanta pratica e scattare tante foto. Si impara solo riguardando le proprie fotografie e interiorizzando gli errori fatti e i successi raggiunti.
Solo così si possono raggiungere le due fasi dell’apprendimento fotografico :
- rendere le scelte tecniche qualcosa di istintivo;
- maturare nel proprio sguardo l’intuizione del momento in cui tutto si allinea ed è pronto per essere fotografato.
Soprattutto questo secondo aspetto richiede tempo e pratica: le prime “famose” 10.000 fotografie che lui riteneva essere le peggiori nella vita di un fotografo.
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