
Non avrei mai immaginato che un veterinario potesse estrarre un iPhone dalla trachea di un pastore tedesco.
Quel giorno, l’odore acre del disinfettante, il bianco settico delle pareti e il luccichio delle sedie di formica non procurarono in Wally il solito panico incontrollato.
Anche un cane capisce quando c’è da salvarsi la vita.
E così fu.
Mi chiamo Ludovico, ho 16 anni e questa è la storia di quando il mio cane mi ha mangiato lo smartphone il giorno prima della partenza per la gita scolastica.
Valli a capire i pastori tedeschi : lui era accucciato tra lo schienale del divano e l’incavo delle mie gambe. Credevo stesse rosicchiando il solito cucchiaio di plastica quando a un certo punto sento una specie di fischio. Era il mio telefono che gli era appena scivolato in gola.
Avete idea di cosa significhi per un ragazzo di 16 anni andare in gita senza lo smartphone?
Per molti dei miei amici sarebbe addirittura impensabile. Ma per me, non è in fondo così grave.
“Vieni in gita senza il telefono? Io non ce la farei, ma come fai? Ma non puoi fartelo prestare da qualcuno? Perché non vai subito a comprarne uno nuovo?”
Come se fosse facile.
I miei genitori, abituati a gestire le cose della vita in modo sempre originale, mi avrebbero detto:
“Tesoro, ci dispiace molto per il tuo telefono ma dacci ancora un attimo, vorrai mica farci assomigliare ai genitori dei tuoi amici?”.
Questa è una caratteristica della mia famiglia : ci teniamo tutti a fare le cose in modo un po’ diverso dal nostro prossimo a patto che il nostro prossimo non se ne accorga o, ancora peggio, possa risentirsene.
Anche io ho una tendenza verso la stravaganza.
Ed è per questo che, a differenza dei miei amici, non trovavo così grave la situazione in cui l’affare Wally mi aveva portato : partire per una gita scolastica senza il proprio telefono.
Pensavo che avrei approfittato per fare le cose per cui gli altri mi ritengono strano.
Ad esempio, a me piace qualche volta starmene da solo a leggere un libro.
Durante le due ore di educazione fisica c’è chi gioca a calcio, chi finisce di fare i compiti, chi se ne va in giro per la città.
Io invece resto negli spogliatoi della palestra steso su una panca di legno, affondato in quella massa di aria consumata, in mezzo all’odore acre delle scarpe di gomma, e leggo un libro.
Non per tutte e due le ore, perché dopo un po’ mi annoio.
Ma finché non arriva la noia, mentre sono tutto immerso nei personaggi e nelle loro storie, che qualche volta addirittura mi sembra di sentire gli odori e i rumori delle stanze in cui si svolgono i racconti, vorrei che non mi disturbasse nessuno.
E tantomeno vorrei che nessuno mi dicesse : ”Che fai?” mettendosi a ridere e riperdendo subito lo sguardo nel display.
Potevo quindi dirmi quasi contento di partire senza il mio cellulare, non fosse stato per la possibilità di partecipare all’Almanacco fotografico, l’annuale concorso fotografico che si teneva nel mio liceo.
Le ultime tre edizioni erano state vinte da fotografie scattate durante le gite scolastiche e quell’anno avevo deciso che ci avrei provato anch’io.
Mi ero accorto dell’importanza dell’Almanacco Fotografico durante il mio secondo anno di liceo.
L’almanacco fotografico
Era uno dei primi giorni di scuola e me ne stavo al bar con Luca e Gualtiero a parlare di chissà quale romanzo scritto da chissà quale autore minore, immersi nelle nostre sciarpe di lana grossa e nei nostri caffè americani.
Notai un ragazzo del primo anno che stava guardando la bacheca con le informazioni per gli studenti.
Aveva il viso rovinato dall’acne, i vestiti di qualche fratello più grande e dei grossi occhiali con la montatura nera.
Era un tipetto curioso, più basso della media e guardava la bacheca inclinando molto la testa, come quando si cercano di vedere le stelle cadenti.
Indicai con un gesto dello sguardo la piccola matricola a Luca e Gualtiero e sorrisi dicendo : “Che ha visto?”.
Non eravamo di quelli che importunano le matricole ma sentivamo una sorta di affinità con quel suo strano modo di fissare la bacheca; se non altro, come noi e al contrario della maggior parte del resto della scuola, era uno che non disdegnava leggere qualcosa per più di qualche manciata di secondi.
Lo accerchiammo da dietro, con le braccia conserte e l’aria minacciosa. Il nostro riflesso sul vetro gli fece ruotare la testa verso il basso e stava quasi per sfilarsi di lato, quando dissi : “Cosa c’è di tanto interessante da leggere, ragazzo?”.
“Niente niente, stavo leggendo la storia della foto che ha vinto il concorso dell’almanacco…”
“Addirittura”, disse Luca “ e come mai tutta questa curiosità?”.
“L’avevo vista sulla pagina Instagram del concorso, è davvero bellissima; e volevo sapere cosa c’era dietro, qualcosa sull’autore. L’almanacco è stato l’unico motivo che mi ha convinto ad iscrivermi in questa merda di liceo”.
Fu allora che capii quanto la fama di quel concorso fotografico aveva oltrepassato i muri della scuola e conquistato un’altra parte di mondo.
Poca importanza aveva quanto fosse grande quella parte di mondo, mi piaceva la possibilità di conquistare un’apertura verso l’esterno attraverso la fotografia.
La matricola lesse l’autore e il titolo della foto:
“Corrado Santucci – Mentre i prof ci credevano a letto…”
La foto era scattata nel giardino di una villa profanata di nascosto durante la gita scolastica di quell’anno. A scattarla, Corrado Santucci, vincitore delle ultime 3 edizioni.
Sul bordo di una piscina c’erano giovani sorridenti che si rincorrevano, altri erano sospesi in aria nello svolgersi di un tuffo e quelli che avevano già squarciato la superficie dell’acqua, sparpagliavano spruzzi bianchi su tutta l’inquadratura.
Erano belli, magri e felici e la foto sembrava quella della copertina di un disco, colori laccati e ombre nere.
Bellissima, disse la matricola.
Neanche a dirlo, a me le fotografie di Corrado Santucci proprio non piacevano.
Erano un trionfo dello scatto esclusivo : era come se fossero lì per dire ecco dove sono stato e voi no, eccole le feste a cui voi non parteciperete mai. E la maggioranza di chi lo votava era mossa dall’invidia di non poter frequentare quei posti e partecipare a quelle feste.
Giovane rampollo di una famiglia molto più benestante della media delle famiglie del liceo, sapeva come farti pesare la cosa, ma lo faceva con quell’innocenza propria della fotografia (cosa c’è di male, questa è pur sempre solo la mia vita).
Anche sui suoi profili social, c’erano le persone più in vista della scuola che si agitavano in salotti sfavillanti, allagati dalla luce di lampade dalle forme strane. Gli animali da giardino, che avevano nomi di persona, pisciavano sulle ruote delle macchine parcheggiate dentro casa e partecipavano a quelle feste più di te che adesso stavi guardando quelle foto.
Ma oltre a quello che si vedeva non c’era niente altro. Nessun significato nascosto e niente che andasse oltre la pura rappresentazione di quei fatti.
Per me fare foto era diverso e quell’anno mi sentivo pronto a misurarmi con gli altri, partecipando anch’io al concorso.
Avrei voluto vincere ma non per farmi ammirare dalle nuove matricole.
Forse si trattava di avere conferma del mio modo di vedere le cose : il pubblico di Santucci che diventava mio, le cose che piacevano a me che di colpo piacevano a tutti, una nuova estetica mondiale…
Forse sto esagerando, ma la stravaganza si paga sempre con un pizzico di megalomania.
Fatto sta, le foto delle ultime 3 edizioni del concorso, quelle vinte da Santucci, erano state scattate proprio durante le gite scolastiche.
Il destino, nelle sembianze del mio pastore tedesco, aveva deciso almeno per il momento di tenermi lontano da quella possibilità.
Il giorno della partenza
L’aroma del caffè, l’odore avvolgente del burro e quel lungo fischio che avvisava che tutto era pronto.
In cucina trovavi tutto quello che i tuoi sensi si aspettavano : la moka fumante, i biscotti fatti in casa che respiravano da un tovagliolo bianco e il bollitore con l’acqua per il tè.
Io, mio fratello e mia sorella seduti al tavolo della cucina. Mio padre a capotavola, immerso nel tablet: tutti pronti per il rito della prima colazione.
La celebrante, mia madre, anche quella mattina si rivolse al trofeo a forma di racchetta che si stagliava sul camino e recitò ad alta voce : “Torneo di tennis circolo Canottieri, sedicesima edizione. Giovanni Paraggi : 2° classificato”.
Questo ingrediente della colazione, insieme alla moka non ancora sostituita dalle capsule, si poteva trovare solo a casa mia.
Leggere ad alta voce l’ultimo riconoscimento avuto da uno dei suoi 3 figli era un’abitudine che riempiva d’orgoglio mia madre.
Inoltre, quel gesto spronava gli altri due figli a fare in modo che quella cantilena mattutina non diventasse noiosa.
Ogni tanto andava cambiata e questo bastava a stuzzicare inconsciamente le ambizioni degli altri due figli : un circolo celebrativo virtuoso.
Finita la colazione, mentre mi affrettavo per prendere i bagagli, mia sorella mi chiese di seguirla nella sua stanza.
Eravamo due introversi e comunicavamo attraverso un canale tutto nostro che non prevedeva lunghe conversazioni. Quel giorno riuscì a dirmi: “Lo so quanto ci tenevi a poter fare delle fotografie in gita e mi dispiace che Wally ti abbia mangiato il cellulare” semplicemente consegnandomi la sua macchina fotografica reflex.
Quella macchina giaceva inutilizzata nel suo armadio dal Natale precedente.
Anche lei appassionata di fotografia, aveva creduto per errore che per diventare più bravi fosse necessaria un’attrezzatura migliore.
Poi la reflex arriva e ci si accorge che tutto rimane come prima.
Per non deluderla, accettai quella macchina con finto entusiasmo.
In realtà non sapevo come avrei gestito quell’ingombrante marchingegno; c’era pure, allacciato all’esterno della borsa, un piccolo treppiedi. Avrei accettato la macchina ma il treppiedi no, quello avrei trovato una scusa per lasciarlo a casa, faceva troppo escursionista sfigato.
A questo punto oltre a giustificarmi per qualcosa che non avevo, dovevo trovare anche una motivazione per qualcosa che mi portavo appresso.
Mio padre e mia madre mi accompagnarono alla partenza. Per quel giorno, mio fratello e mia sorella andarono a scuola con i genitori di un vicino di casa.
Per fortuna mio padre ebbe l’idea di portare anche Wally, che conquistò l’attenzione di tutti.
Mia madre ne raccontò la sventura del giorno prima e quindi fu lei a servirmi l’occasione per poter dire a tutti della storia del mio smartphone.
Ed una cosa era fatta.
“Cos’hai lì dentro?”, chiede Vanessa indicando lo zaino della macchina fotografica, che di certo non conteneva vestiti.
Approfittando dell’euforia del momento aprii lo zaino e impugnai la grande reflex, agitandola in aria con una mano sola.
“Me l’ha prestata la mia sorellina, perché questo coglione ha ingoiato il mio telefono e tra un po’ non moriva”, dissi io, passando il braccio che teneva la macchina fotografica attorno al collo di Wally, scoccandogli un bacio sulla testa pelosa.
“Che dolce la sorellina”, rispose Vanessa.
E per quanto mi riguardava, si poteva partire.
La notte prima di tornare
Che ve lo dico a fare : la gita fu tutto un susseguirsi di fughe notturne di camera in camera, professori in pigiama nei corridoi, grandi dormite sulle panchine dei musei ed ebbrezze moleste in posti che avrebbero meritato un maggior rispetto istituzionale.
Tutti episodi che, nei racconti fatti davanti a chi non c’era, sarebbero diventati momenti memorabili, con il tacito consenso di chi c’era e sapeva benissimo che le cose non erano state poi così indimenticabili.
Il giorno prima del ritorno a casa ero l’unico ad avere una benevola euforia.
In tutti gli altri, l’ansia di non lasciarsi scappare nulla – che era stata una costante dei giorni precedenti – diventò quasi un’ossessione.
Ogni souvenir sarebbe dovuto essere il più bello mai comprato, ogni foto fatta doveva essere rappresentativa di un’intera generazione; birre bevute in fretta per poterne bere subito un’altra e far sì che l’ultima non arrivasse mai.
A me tutto quell’entusiasmo non piaceva ma, badate bene, non perché fossi invidioso di non riuscire a farmene travolgere. Non mi piaceva solo perché non lo trovavo sincero.
La sera il clima era più rilassato. Forse tutti erano rassegnati perché mancava solo più una notte al ritorno a casa. E in quel ritorno casa, ognuno di noi aspirava ad un ritrovamento, al riavvicinarsi di quelle piccole cose che sai di poter trovare solo a casa tua.
Quell’angolo preciso del tuo letto in cui ti appollaiavi prima di dormire; l’odore forte del sugo che arriva dalla cucina la domenica e tante altre piccole cose infinite che sono le sole alla fine a restare nello scorrere di tutto il resto.
Per quell’ultima sera ci era stata concessa una libera uscita con rientro a mezzanotte in albergo.
Alcuni decisero di andare a bere in un pub, altri restarono in albergo e altri come me scelsero di imboccare quel sentiero col cartello “Belvedere” che avevamo visto dal pullman durante tutti i ritorni in albergo.
Era un’incantevole sera di giugno e il vento, che aveva appena finito di soffiare forte, lasciò l’aria limpida e trasformò il cielo in un enorme schermo in alta definizione.
La sera, il belvedere trasformava la profondità del territorio in un’enorme massa scura traguardata da mucchi sparsi di punti luminosi : le luci dei paesi.
Dove ti immaginavi la linea dell’orizzonte, altri puntini di luce diventavano più radi e distanti tra loro : lì cominciava la trama di un enorme soffitto stellato.
E quelle stelle erano le stesse che vedevano i nostri genitori e i nostri fratelli dalle finestre delle nostre case, più vicini di noi in quel momento a tutte quelle piccole cose infinite che domani sarebbero state di nuovo nostre. La sensazione di quella vicinanza rendeva tutto più avvolgente.
Trascorremmo un bel paio d’ore in quel posto e come per incanto rimanemmo immersi in un lungo e silenzioso tempo, così diverso da quelli che avevano caratterizzato quel viaggio.
Ad un certo punto decidemmo di rientrare.
Io avevo guadagnato qualche metro ed ero in testa al gruppo sulla strada del ritorno.
Una collinetta di terra segnava il ciglio della strada ed io scavalcai il guardrail per salirci sopra e per godermi quello spettacolo da un punto più alto.
Nella cornice sinuosa di una curva sulla vallata guardavo gli altri che facevano foto alla notte con i loro telefonini.
Sapevo che è possibile fare foto decenti al cielo stellato con uno smartphone a patto che si seguano particolari accortezze.
Tra queste, fissare il telefono ad un treppiedi portatile o comunque non scattare tenendolo in mano, utilizzare delle app che permettono di regolare il tempo di esposizione, ecc.. Ma loro non stavano facendo nulla di tutto questo.
Era uno di quei grandi scenari da non perdere ma c’era il rischio che nessuna di quelle fotografie potesse restituire la bellezza del momento.
Io di sicuro non soffrivo della fretta di dover catturare a tutti i costi un tramonto o una scena divertente. E in quella circostanza, quella mancanza di fretta, unita al bel po’ d’alcool che avevo in corpo, mi procurò un’illuminazione.
Ero io che avevo dietro una macchina fotografica reflex : il suo obiettivo luminoso e il grande sensore avrebbero raccolto meglio la poca luce delle stelle. E poi, quando si dice il caso, avevo dimenticato di lasciare a casa il piccolo treppiedi. Ero in una posizione laterale rispetto al cammino degli altri, avrei potuto farli scorrere senza farmi vedere e prendermi il tempo necessario per un’inquadratura decente.
Slacciai le due fibbie che chiudevano la borsa e presi la macchina fotografica. Poggiai per terra la mia giacca a vento leggera per creare un luogo sicuro dalla polvere dove montare l’attrezzatura.
Presi un 28 mm dalla tasca interna della borsa, tolsi il tappo alla reflex e feci scattare l’obiettivo nella sua ghiera.
Liberai allora il treppiedi dalle fasce che lo legavano alla borsa e regolai i piedi in modo che si adattassero al terreno irregolare.
Provai qualche inquadratura.
Perché non tentare di far “uscire” le stelle ?
Era quella la tipica situazione in cui con una lunga esposizione era possibile ricreare la magia di far venire in fotografia quello che non potevi vedere a occhio nudo.
Nessuno quella sera era in grado di fare una foto del genere.
Lasciai sfilare gli ultimi del gruppo : non mi avevano visto, potevo davvero iniziare ad impostare, con calma, la mia inquadratura.
E mentre guardavo nell’obiettivo comparve l’ultimo ritardatario della compagnia.
Sì, proprio lui : Corrado Santucci.
Da come era concentrato a tenere fermo il suo telefono si vedeva bene che sapeva che il trucco di quella foto era tutto lì. Aveva probabilmente cercato un punto dove appoggiarsi non trovando nulla, e quindi si arrese a fare quella fotografia a mano libera.
Ma io non avevo solo il treppiedi rispetto a lui, avevo anche un sistema ottico che era in grado di catturare più luce : il grande sensore della reflex e il suo grande obiettivo.
Mentre pensavo a tutte queste cose decisi di rendere Santucci il protagonista della mia fotografia: avrei fatto una foto a Santucci che fotografa e realizza una di quelle foto che a me non piacciono proprio…
Il ritorno dalla gita
Tornammo dalla gita di venerdì.
Noi che volevamo partecipare all’almanacco fotografico della scuola avevamo un solo pensiero in mente : selezionare la fotografia che avrebbe partecipato al concorso.
La mattina dell’arrivo, dopo aver viaggiato in pullman tutta la notte e dormendo davvero poco, ognuno tornò verso le proprie case.
Mia madre entrò più tardi al lavoro per potermi venire a prendere e riportare a casa.
Una volta a casa sapevo che sarei rimasto solo fino al ritorno dei miei fratelli da scuola. Ero molto stanco ma volevo subito mettermi a lavorare alle fotografie.
Presi il barattolo del caffè nel frigo, riempii l’acqua nel serbatoio della moka, versai la polvere di caffè nel filtro e con il cucchiaino la schiacciai, dandogli la giusta densità. Poi aspettai che il caffè venisse su.
Mentre lo bevevo sulla poltrona della cucina sprofondai all’improvviso in uno di quei sonni inaspettati, che ti prendono quando non hai programmato di addormentarti ma sei talmente stanco di non riuscire a vincere quell’abbandono.
Avrei sicuramente dormito fino a che non fosse tornato qualcuno ma dentro di me la volontà di scegliere la fotografia per il concorso agiva in modo inconscio. Mi svegliai quindi dopo circa mezz’ora con un nuovo vigore, deciso più che mai a mettermi al lavoro.
Era da tanto che non facevo qualcosa con quella determinazione.
Decisi di rivedere le foto sul pc fisso della mia camera perché aveva uno schermo più grande di quello del portatile, anche se era un computer meno potente.
Estrassi la memory dalla reflex e la inseririi nel lettore di card da collegare al pc. Quel vecchio computer e la macchina fotografica non avevano la possiblità di connettersi in bluetooth. Collegarli tramite un cavo era un gesto che mi piaceva pensare avesse portato una qualche forma di godimento a quei due vecchi marchingegni.
Una volta aperto il programma di elaborazione delle foto che avevo usato qualche volta insieme a mia sorella ai tempi delle sue velleità artistiche, iniziai ad importare le fotografie dalla scheda di memoria.
L’avanzare lento e solenne della barra del download mi creò una strana forma di emozione e il raggiungimento del 100% fu accompagnato da un colpo più forte nella mia gabbia toracica.
E sulla barra laterale, sotto forma di icone ordinate, tutte le fotografie della gita.
A volte noi giovani siamo proprio prevenuti : ricordo quando mio padre mi descrisse la dolcezza dell’attesa dello sviluppo delle fotografie quando non esisteva ancora il digitale. E mi sembrò davvero fuori dal tempo non poter vedere subito quello che si era scattato e soprattutto dover aspettare giorni la stampa delle foto.
Adesso, che comunque avevo intravisto nel display almeno una piccola preview delle fotografie, quel processo lento e dilatato di acquisizione mi regalava una strana forma di avvicinamento alle mie fotografie. Come se quei gesti facessero parte ancora di quelli che i saccenti sui forum chiamano “processo creativo”, e probabilmente lo era.
Bene, avevo tutte le foto davanti a me e dovevo iniziare con la prima selezione.
Tra le tante mi colpirono una foto in cui eravamo tutti intorno al fuoco, la sera che incontrammo i francesi in spiaggia ma poi dovemmo ritornare. Il movimento delle fiamme era una striscia di un giallo intenso quasi rosso, sfocata dal lungo tempo di esposizione a cui il buio mi aveva costretto.
Un’altra fotografia, in cui Giulia e Vittoria per scommessa si baciarono in bocca con la lingua. La mia foto non fu l’unica ad immortalare quel momento ma di sicuro ero quello che le era andato più vicino , probabilmente è quella che Santucci si giocherà quest’anno, è il suo genere.
E poi c’era quella di Santucci, la sera che lo fotografai dal ciglio della strada, mentre faceva una foto tornando dal belvedere.
Era davvero venuta bene ma dal display della macchina fotografica non ero riuscito a vedere il tappeto di stelle sopra di lui, che con un po’ di elaborazione avrei potuto valorizzare ancora di più.
C’era un lampione sulla sinistra che illuminava la strada ma non mi piaceva tanto – era tagliato quasi per metà ed era storto.
Croppai un po’ la fotografia in quella zona per lasciarlo fuori dall’inquadratura ma mi piaceva la luce che faceva sulla strada. Era uno di quei vecchi lampioni che ormai sopravvivono solo sulle vecchie strade statali, che fanno una luce concentrata in un punto. Cercai di aumentare la luminosità di quel punto e mi venne quasi una pennellata di luce sull’asfalto. Un effetto un po’ irreale, ma non stava male.
E poi c’era lui che faceva la foto, la strana presenza di un ragazzo con lo zaino in spalla al centro di una carreggiata.
Un altro colpo nella gabbia toracica stabilì che la foto che avrei mandato al concorso sarebbe stata proprio quella.
Ora c’era solo da scegliere un titolo.
Volevo che fosse qualcosa di provocatorio nei confronti di Santucci, potevo sfruttare la sua presenza nella foto. Ma volevo anche che la provocazione fosse nascosta e che lui potesse addirittura trarne motivo di orgoglio.
Trovato : era una foto a Santucci che faceva una foto, e allora perché non essere onesti e dire : “A me le foto che fa Corrado Santucci, proprio non piacciono…”.
Rimasi stupito di quanto fosse facile inviare la foto per partecipare al concorso.
Dopo essersi autenticati nel portale dell’almanacco, bastava scegliere il file e inserire il titolo : era tutto quello che serviva alla commissione.
Seguii quelle semplici istruzioni e premetti il tasto invia.
E’ inutile dire che il colpo nella gabbia toracica questa volta fu il più forte di tutti.




Scommetto che volete sapere come è andata a finire.
Cosa ho fatto la domenica in attesa dei risultati del concorso (che sarebbero arrivati solo alle 3 del pomeriggio), se la notte prima ero riuscito a dormire e se ero con qualcuno a condividere l’esultanza o la delusione.
A dire il vero la tensione di quel giorno fu talmente grande da rendere sfocati nella memoria tutti i ricordi.
Però so bene cosa successe il lunedì.
L’aroma del caffè, l’odore avvolgente del burro e quel lungo fischio che avvisava che tutto era pronto.
Io e mio fratello arrivammo per primi al tavolo della colazione.
Mia sorella entrò in cucina dopo qualche minuto : i nostri sguardi si toccarono solo per una frazione di secondo, eppure giurerei di averci visto un sorriso.
Mia madre, al culmine di una fremente attesa, rivolgendosi alla targa a forma di fotogramma trionfante sul camino, finalmente potè recitare : “Almanacco fotografico liceo Guglielmo Marconi, settima edizione. Ludovico Paraggi, 1° classificato“.
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