Agli inizi degli anni 70 Stephen Shore fece un viaggio attraverso gli Stati Uniti e con la sua macchina fotografica immortalò “tutta quella terra nuda che si svolge in un’unica incredibile massa fino alla Costa Occidentale, e tutta quella strada che va, tutta la gente che sogna nell’immensità di essa”, riprendendo la descrizione del territorio americano che fa Jack Kerouac nel paragrafo finale di “Sulla strada”.
Quei luoghi, la cui maestosità incontaminata aveva rappresentato per anni il soggetto di autori del calibro di Ansel Adams, facevano ora da sfondo alle strade, alle automobili e alle stazioni di servizio fotografate da Stephen Shore.













Stephen Shore non fu l’unico, ad un certo punto del ‘900, ad accorgersi che il paesaggio stava cambiando.
Assieme a lui, altri fotografi iniziarono a dare dignità agli interventi della mano dell’uomo che, strato dopo strato, iniziavano ad alimentare nuovi significati, di cui abbiamo parlato anche nel post sulla fotografia di paesaggio.
Era l’inizio di una nuova estetica.
Ma come si crea una nuova estetica?
Di certo non in modo intenzionale: le grandi cose avvengono sempre per caso e mentre succedono nessuno se ne accorge. Si può avere, al limite, la sensazione di stare su una soglia, la consapevolezza cioè di lasciarsi indietro qualcosa per entrare in un territorio ancora inesplorato.
Insieme ad altri fotografi ha inventato un modo di vedere le cose che ancora oggi conserva diversi punti di contatto col nostro senso estetico.
E per nostra fortuna tutto quello che ha sperimentato sul linguaggio fotografico, lo ha messo in ordine nel suo libro “Lezione di fotografia – la natura delle fotografie”.
La fotografia è meno logica delle altre forme espressive.
Quello che si vede rappresentato è un oggetto a cui tutti associano, ad una prima lettura, un nome preciso.
I grandi fotografi vogliono arrivare nei posti della mente in cui non ci sono nomi e le cose vengono evocate grazie a delle associazioni diverse da quelle logiche di base.
Per raggiungere questo attraverso la fotografia, Stephen Shore riconosce 3 piani fondamentali:
• il piano materiale;
• il piano descrittivo;
• il piano mentale.
Il piano materiale e quello descrittivo rappresentano la parte fisica dell’esperienza visiva.
La luce riflessa dalle immagini prende forma e si organizza attraverso le decisioni che prende il fotografo e che riguardano:
1) il punto di vista;
2) l’inquadratura;
3) la messa a fuoco;
4) il tempo.
Quella luce, con la forma che abbiamo scelto di darle, raggiunge poi la corteccia cerebrale: è lì che può succedere di tutto.
É quello il punto in cui la rappresentazione può muovere le emozioni, le forme dell’immagine si riconoscono in un contesto in cui vengono arricchite.
Stephen Shore definisce questo luogo come piano mentale.
Ma prima di entrare nel dettaglio della sua lezione di fotografia ripercorriamo alcuni passaggi salienti della sua vita.
Stephen Shore e il paesaggio alterato dall’uomo: the New Topographics
Dall’ottobre 1975 al febbraio 1976, presso l’international Museum of Photography alla George Eastman House (Rochester, New York), si tenne una mostra che rappresentò un punto di svolta per la fotografia di paesaggio.
Il titolo della mostra era: “New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape”.
Vi parteciparono dieci fotografi, ognuno con dieci fotografie in bianco e nero, ad eccezione di Stephen Shore che presentò foto a colori.
L’altra eccezione era rappresentata dai coniugi tedeschi Bernd e Illa Becher, gli unici non americani a partecipare alla mostra, fondatori della scuola di Düsseldorf.
















Le fotografie della mostra non contenevano quel senso di grandiosità che fino ad allora aveva caratterizzato la fotografia di paesaggio.
Piuttosto restituivano un distacco rappresentativo topografico, tante informazioni e nessuna velleità emozionale, “un disprezzo casuale per l’importanza delle immagini.”
Tutti i new topographics avevano in comune la volontà di testimoniare i modi in cui la mano dell’uomo aveva alterato il paesaggio.
Il loro lavoro decise di fare i conti con figure nuove che aggiungevano uno strato alla maestosità dell’incontaminato paesaggio naturale.
Come fotografare la nuova edilizia residenziale che interrompe la prospettiva con la sua antica funzione di casa?
Oppure le fabbriche, dalle forme mai viste, nate per svolgere una funzione ben precisa e ripetitiva (produrre, solo produrre), con la loro estetica involontaria?
E poi le automobili, di cui un fotografo deve gestire i movimenti, prevederne le traiettorie, come fossero dei moderni animali?
Ognuno dei 10 fotografi risolve questi problemi in modo differente.
Il lavoro di Stephen Shore di quel periodo si inserisce in un percorso personale di sperimentazione del linguaggio fotografico, che ha una delle sue prime tappe nella Factory di Andy Warhol.
Gli inizi di Stephen Shore: la Factory e il periodo sperimentale.
Non fraintendere il titolo di questo paragrafo.
Il periodo sperimentale di Stephen Shore non avviene durante gli anni di frequentazione della Factory di Andy Warhol, ma solo successivamente.
Tra il 1965 e il 1967, Shore trascorse alla Factory un periodo in cui fu spettatore e cronista di quei “molti seduti sui divani in attesa che succedesse qualcosa”.
















Eppure quella frequentazione gli insegnò due cose fondamentali:
1) la possibilità di realizzare arte sottoforma di “serie “;
2) l’intenzionalità nel processo artistico, cioè prendere decisiolni sulla volontà di realizzare, piuttosto che saper fare qualcosa.
(Aggiungerei anche, in relazione ai contenuti, la lezione di poter trarre dalle cose banali un piacere distaccato).
Ma mentre a tanti bastava semplicemente frequentare la Factory, l’ambizione di Stephen Shore lo spingeva ad andare oltre.
Era stato sicuramente un onore per lui rappresentare quel luogo tanto significativo ma lo studio del linguaggio fotografico lo portò ben presto altrove.
Sono del 1969 alcuni lavori, ancora in bianco e nero, che hanno un carattere sperimentale.
Con questi lavori, eseguiti in autonomia seguendo il formato Warholiano della serie, Stephen Shore vuole isolare i fondamenti del linguaggio fotografico per osservare il loro” comportamento”.
La serie 4 part variation rappresenta, ad esempio, quasi un esercizio di inquadratura per capire come funzionano i rapporti tra il fotografo e lo spazio.
Il soggetto è il cofano di una macchina ripresa da diverse angolature e distanze.




Capiremo meglio questa serie di fotografie quando spiegheremo il concetto di bidimensionalità a proposito delle lezioni di fotografia.
Un altro esercizio interessante riguarda la scelta del tempo dello scatto.
Non voleva che fosse quello che gli accadeva intorno a decidere quando scattare e allora decise di darsi una regola per fotografare a prescindere dalla scena.
Nella serie 22 luglio 1969 fotografò un suo amico per 24 ore, ogni mezz’ora.
Ecco la serie di 49 fotografie, organizzate in una griglia 7×7:




Questa serie rappresenta un modo per capire la scelta del tempo di scatto, altro argomento approfondito nel libro “lezione di fotografia”.
Due viaggi nella fotografia di Stephen Shore: American Surfaces e Uncommon Places
Le fotografie presentate da Stephen Shore nella mostra dei New Topographics erano state scattate durante un viaggio che il fotografo fece nei primi anni Settanta attraverso gli Stati Uniti.
Molti anni dopo quel viaggio, i coniugi Becher, con cui Shore aveva mantenuto un forte legame, gli chiesero: “Allora Stephen, vuoi fotografare tutti i grandi viali d’America?”.
E Stephen Shore rispose: “No, io voglio fotografare la quintessenza di quei viali”.
Al pari dei Becher, la vera natura del soggetto fotografato era espressa da una sua rappresentazione corale. Ma mentre nei Becher la ripetizione di uno stesso soggetto era rigidamente codificata, nelle fotografie di Stephen Shore si trattava della ripetizione di un topos più aperto e liberamente rappresentato.
A loro modo potevano essere considerate una serie sulla quintessenza del territorio americano.
E questa intenzione la troviamo espressa nei suoi due libri più importanti: American Surfaces (1999) e Uncommon Places (1982).
Già all’inizio del viaggio Shore capì che la ripetitività di quei parcheggi, stazioni di servizio e stanze di motel conteneva i valori di una nuova estetica del vivere.
Il diario visivo che aveva scelto di fare, avrebbe raccontato molte più cose dell’America di quanto fosse possibile riconoscere a un primo sguardo.
“Vedere qualcosa di ordinario, qualcosa che vedresti ogni giorno e riconoscerlo come una possibilità fotografica, questo è ciò che mi interessa.”
Pur riferendosi a quello stesso viaggio, compiuto tra il 1972 e il 1973, American Surfaces contiene scatti realizzati con una macchina fotografica 35mm mentre Uncommon Places è realizzato con un banco ottico.
Abbiamo sempre detto che è importante avere un preciso messaggio da trasmettere quando si fanno fotografie.
Stephen Shore voleva arrivare a percepire la nuova qualità sottostante il paesaggio americano, quella” quintessenza” di cui parlava ai coniugi Becher.
L’utilizzo di due macchine fotografiche differenti gli consegna un’ulteriore possibilità di sfumatura.
In American Surfaces, attraverso la spontaneità e la velocità di una macchina fotografica compatta, Stephen Shore cerca di restituire l’esperienza del vedere.
















Si fermava casualmente a riprendere quello che vedeva anticipando l’atteggiamento di chi pubblica sui social ma con di sicuro maggiori intenzioni estetiche.
Di quel viaggio, Shore dirà :
“Praticamente fotografavo ogni piatto che mangiavo, ogni persona che incontravo, ogni letto in cui dormivo e ogni bagno in cui orinavo.”
In Uncommon Places avviene un interessante miscelamento.
Questo nuovo modo di vedere il paesaggio viene interpretato con la strumentazione che fu propria dei paesaggisti della tradizione: il banco ottico.
Applicare quel metodo di ripresa lento e meditato a una serie di soggetti così dinamici e poco universali ha un significato che vale la pena indagare.
















Come riportato da Fabio Severo in questo interessante articolo su Stephen Shore, il fotografo definisce le realizzazioni di Uncommon Places come “consapevolezza aumentata”.
Questa è accostata, sempre da Severo, alla rivelazione metafisica del mondo ordinario, descritta da De Chirico nel 1919:
“Pigliamo un esempio: io entro in una stanza, vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri; tutto ciò mi colpisce, non mi stupisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammettiamo che per un momento e per cause inspiegabili ed indipendenti dalla mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà allora quale stupore, quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando questa scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sotto un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico delle cose.”
Stephen Shore cercava l’universale all’interno del particolare delle sue strade e delle sue stazioni di servizio.
Proprio come rispose ai Becher, ne cercava la quintessenza.
Stephen Shore e la consapevolezza del linguaggio: lezione di fotografia.
Tutti i grandi fotografi, prima di arrivare a realizzare le loro opere migliori, percorrono una strada fatta di errori e di conquiste.
Quello che imparano durante questo percorso di crescita si trasforma in regole che dopo molta pratica diventano per loro abitudini.
Ogni tanto, per fortuna, accade che alcuni di loro decidano di mettere gli altri al corrente delle loro conquiste.
E scrivono libri che parlano di fotografia.
lo ha fatto Ansel Adams (che da questo punto di vista fu molto prolifico), Luigi Ghirri di cui abbiamo addirittura la trascrizione di alcune lezioni tenute all’università e, come già sappiamo, il nostro Stephen Shore.
Nel suo libro “lezione di fotografia-la natura delle fotografie” , Shore esamina diversi metodi con cui rapportarsi a diversi stili fotografici.
Il libro rappresenta un compendio alle sue lezioni temute al Bard College (nello stato di New York) in cui insegnava fotografia.
Nel libro si cerca di definire la grammatica fotografica, cioè il modo in cui le fotografie funzionano.
Secondo Stephen Shore esistono tre piani fondamentali che vanno a costituire la grammatica fotografica:
1) il piano materiale;
2) il piano descrittivo;
3) il piano mentale.
Il piano materiale.
Una fotografia è piatta, ha dei bordi ed è statica.
Da queste semplici osservazioni, Stephen Shore fissa subito alcuni riferimenti importanti. Il piano materiale di una fotografia ne determina le caratteristiche fondamentali.
La superficie piatta della carta o del monitor definisce il piano della fotografia, i suoi margini ne determinano la natura circoscritta e la sua staticità ne caratterizza l’esperienza temporale.
Le emulsioni utilizzate nelle pellicole influenzano la resa tonale delle fotografie in bianco e nero; l’uso del colore aggiunge un nuovo livello di informazione descrittiva all’immagine.
Queste caratteristiche formano l’immagine e questa piccola parte iniziale del libro serve a far capire la tipologia di approccio metodico e razionale agli argomenti.
Il piano descrittivo
Realizzare una fotografia significa fissare su un supporto , fisico o digitale, un aspetto del mondo.




In questa foto Walker Evans ha scelto di rappresentare una strada, un automobile, una pompa di benzina, colline e case. Ha poi dato una sensazione di spazio che recede.
Ma mentre un pittore ha davanti a sé una tela bianca su cui deve costruire dal nulla una scena, il fotografo ha il compito di mettere ordine nel caos di una qualsiasi scena della vita.
E per fare questo può utilizzare quattro aspetti fondamentali, andando a scegliere:
• un punto d’osservazione;
• un’inquadratura;
• un momento per lo scatto;
• un piano di messa a fuoco.
Questi quattro elementi rappresentano i fondamenti della grammatica visiva.
Una stessa scena può essere rappresentata in infiniti modi andando a fare scelte diverse di questi quattro fattori.
Questa parte del libro è molto interessante perché spiega in modo diverso quella che normalmente viene definita “tecnica fotografica.”
Riconoscerai le nozioni di tempo d’esposizione e profondità di campo ma le guarderai da una prospettiva diversa e originale.
La bidimensionalità
Il mondo che ci circonda è in 3 dimensioni mentre un sistema fotografico, analogico o digitale , proietta quanto catturato dall’obiettivo su una superficie a 2 dimensioni. Questo fa sì che in un’immagine fotografica si vengono a creare dei rapporti nuovi tra gli elementi rappresentati.




Stephen Shore osserva che in questa foto di Lee Friedlander, il cartello stradale e le nuvole erano lì anche prima del momento dello scatto.
Ma è proprio della fotografia l’effetto di zucchero filato che la nuvola fa appoggiandosi sul cartello.
Durante lo scatto gli oggetti sullo sfondo vengono sovrapposti a quelli in primo piano e se si cambia punto di osservazione, facendo anche solo un passo avanti o uno indietro, tutto cambia.
E’questa una grande lezione, mai abbastanza ribadita.
E Stephen Shore aveva isolato l’effetto della bidimensionalità e del punto d’osservazione, facendo una serie di foto all’apparenza senza senso.
In qualche museo, qualche sedicente esperto d’arte, commenterà le foto di 4 part variation facendo mirabolanti voli di pensiero.




Ma il nostro Stephen Shore stava solo iniziando a capire l’effetto che può fare muovere un passo, in qualsiasi direzione, prima di scattare una fotografia.
In base alla sensazione di profondità trasmessa, si possono distinguere due tipi di fotografie:
• fotografie opache;
• fotografie trasparenti.
Le fotografie opache sono quelle in cui l’autore ha scelto di non voler trasmettere profondità.




Quanto rappresentato si presta bene alla bidimensionalità del supporto fotografico e lo spettatore è obbligato a concentrarsi su quanto descritto su quella superficie.
Le fotografie trasparenti, al contrario, hanno una spiccata profondità di campo.
Sono questi i casi in cui è possibile” giocare” con i rapporti tra le figure in primo piano e quelle sullo sfondo. chi osserva viene trasportato all’interno dello spazio creato dall’illusione fotografica.




L’inquadratura secondo Stephen Shore
Una fotografia ha i margini, la realtà no.
È questa semplice osservazione, che tutti operiamo a livello inconscio, a far sì che vengano creati dei rapporti di significato tra le linee geometriche dei margini e il resto della foto.
Lo stesso tipo di rapporti tra le figure in primo piano e quelle dello sfondo che abbiamo osservato parlando di bidimensionalità.
Stephen Shore suggerisce una suddivisione tra due tipi di inquadrature.
Ci sono le inquadrature passive, in cui l’inquadratura combacia con la fine dell’immagine.
In queste fotografie c’è una tensione che parte dalla zona centrale, per poi farsi largo verso i margini.




In questa fotografia di William Eggleston, la strada conduce oltre i confini del centro abitato. Il tutto è coerente con la struttura dell’immagine, che suggerisce un mondo che continua oltre i suoi margini.
Nelle inquadrature attive la struttura dell’ immagine si sviluppa dai margini verso l’interno.




In questa foto dello stesso Shore, sappiamo bene che il cielo, gli edifici e i marciapiedi continuano oltre l’inquadratura.
Il mondo di questa foto è tutto nell’inquadratura e questo scenario urbano non sembra essere il frammento di una realtà più grande.
Il tempo di scatto
Vi riporto un estratto dal libro, perché non riuscirei ad esprimere meglio quanto scrive Stephen Shore sul concetto del tempo in una fotografia:
“Chi dice cheese mentre un fotografo lo ritrae ammette inconsciamente che il tempo viene trasformato dalla fotografia.Un’immagine fotografica è statica, mentre la realtà scorre nel tempo.
Quando questo flusso viene interrotto da una fotografia, si scopre un nuovo significato quello fotografico. La realtà è una persona che dice cheese”.
Ora inizia a diventare più chiaro quello che di sicuro conoscerai come il tempo di esposizione.
I suoi aspetti tecnici altro non sono che un modo per dare una sfumatura diversa a quel “definito frammento di tempo” che hai deciso di fotografare.
L’esercizio di Stephen Shore di fotografare il suo amico a intervalli regolari di mezz’ora, gli fu utile a capire il senso della scelta del tempo di scatto.
Riporto alcune definizioni “romantiche” di Stephen Shore del tempo di una fotografia in funzione del tempo di esposizione che si è scelto di adoperare.




… un decimillesimo di secondo
il tempo bloccato : un’esposizione brevissima che interrompe il filo del tempo e dà vita ad un nuovo moneta.




… due secondi
il tempo estrusivo : il movimento della scena o quella della macchina fotografica, che si accumulano sulla pellicola e creano un punto sfocato.




Peperone, 1930 © Edward Weston
… sei minuti
il tempo immobile : il contenuto è fermo e così pure il tempo.
Stephen Shore e la messa a fuoco
La messa a fuoco è il quarto elemento che costituisce la grammatica descrittiva della fotografia.
Una macchina fotografica genera un piano di messa a fuoco unico all’interno di un’immagine. Questo piano crea una gerarchia all’interno dell’inquadratura.
La sua prima funzione è infatti quella di creare un punto di attenzione nell’immagine a cui va fatto corrispondere il soggetto della foto.




L’importanza della gerarchia può essere ridotta aumentando la profondità di campo e lasciando a fuoco i diversi piani dell’inquadratura.
Interessante è osservare come, anche in una foto con elevata profondità di campo, il concetto di messa a fuoco possa dare dinamismo alla lettura dell’immagine.




Percorriamo con lo sguardo questa foto di Robert Adams: dal margine inferiore, attraversiamo il parcheggio ed arriviamo allo schermo.
Poi spostiamo lo sguardo alla montagna alla sua destra e da lì verso il cielo. Adesso rifacciamo il percorso ma poniamo attenzione allo spostamento del punto di messa a fuoco.
Sono i nostri occhi che mettono a fuoco sempre più lontano.
Ma mentre la differenza di messa a fuoco è impercettibile quando gli occhi si spostano dallo schermo alla montagna, diverso è quando da quest’ultima vanno verso il cielo. Sembra che il punto di messa a fuoco si muova in avanti verso di noi.
Non esiste corrispondenza tra la nostra percezione della messa a fuoco e quanto rappresentato.
Consideriamo infine che questo viaggio che i nostri occhi hanno fatto avanti e indietro nello spazio è in realtà avvenuto su un piano bidimensionale.
Il piano mentale
Restiamo sul percorso che abbiamo fatto fare ai nostri occhi attraverso la foto di Robert Adams.
I nostri occhi in realtà non hanno operato nessuna messa a fuoco, perché stavamo guardando qualcosa di piatto.
La sensazione di messa a fuoco è avvenuta sul piano mentale.
Stephen Shore afferma che in realtà, quando guardiamo una fotografia, il nostro cervello interpreta gli impulsi che riceve e costruisce un’immagine mentale.
Il piano descrittivo e quello formale sono separati tra loro.
Posso esistere fotografie come questa di Berenice Abbot dove, pur essendo presenti vari espedienti descrittivi, è scarso il contenuto dello spazio mentale.




Al contrario la foto di Sommer presenta un profondo spazio mentale ma uno descrittivo molto limitato.




Pur essendo separati, piano descrittivo e piano mentale si influenzano a vicenda.
Abbiamo visto che il fotografo produce delle scelte sul piano descrittivo che riguardano:
1) Il punto di osservazione, cioè da dove scattare la fotografia;
2) l’inquadratura, scegliendo cosa includere nell’immagine;
3) il tempo, cioè quando scattare;
4) la messa a fuoco, decidendo cosa mettere in risalto nel piano focale.
Stephen Shore reputa che sia la messa a fuoco a fare da ponte tra i piani descrittivo e mentale.
La messa a fuoco dell’obiettivo come messa a fuoco dell’occhio, che indirizza la messa a fuoco dell’attenzione, come messa a fuoco della mente.
In senso inverso, la presenza di modelli mentali inconsci nella mente del fotografo, guidano le scelte descrittive.
Ciò che è considerato un modello verrà scelto come punto degno di attenzione e sarà lui ad essere messo a fuoco e scelto come soggetto.
Avete presente l’impulso irrefrenabile di fotografare i tramonti?
Si tratta di un modello mentale tra i più diffusi.
Stephen Shore conclude il libro affermando che quando scatta una fotografia, le sue percezioni alimentano il suo modello mentale, che a sua volta si adatta per fare posto a quello che vede.
E questa la porta a cambiare le decisioni sulla foto, in un processo “dinamico e auto-modificante”.
Dice Shore :
[Scattare una fotografia] E’una complessa, continua spontanea interazione fra l’osservazione, la comprensione, l’immaginazione e l’intenzione.
Conclusioni
Cosa ci portiamo a casa da questo articolo su Stephen Shore?
Di sicuro la conoscenza di quel movimento fotografico, quasi rivoluzionario, costituito dai New Topographics, che ha messo le basi per l’estetica moderna del paesaggio e della fotografia in generale.
E poi, un modo nuovo di giudicare le fotografie.
Guardarle in funzione del loro piano materiale e capire che durante lo scatto abbiamo a disposizione 4 scelte da cui dipenderà la riuscita della fotografia, che sono:
- il punto di osservazione;
- l’inquadratura;
- il tempo di scatto;
- il piano di messa a fuoco.
Ponendo sempre attenzione alle scelte che facciamo a livello inconscio, che andranno a influire sulle nostre scelte compositore e che si possono mettere in discussione
Ti lascio con una frase di Stephen Shore che potrai capire meglio ora che hai conosciuto il suo metodo e soprattutto le fotografie del suo periodo sperimentale :
“La mia convinzione è che le costrizioni formali che ti poni come artista possano, paradossalmente, darti un’immensa libertà”.




Dobbiamo seguire l’istinto nel fotografare o stabilire a priori cosa fare. O entrambi?
L’istinto deve essere il risultato di un percorso di disciplina e regole. Per raggiungere questo obiettivo è importante scegliere un tema da seguire. Ne ho parlato qui : https://www.picwalk.net/idee-per-fotografie/?amp